Violenza fa eco a sofferenza


La rabbia con cui lo scorso 22 marzo il 34enne Muhammad Ghaleb Abu al-Qay’an (محمد غالب أبو القيعان) ha inflitto diverse pugnalate sul corpo della 43enne Laura Yitzhak in una stazione di servizio di Be’er Sheva, nel sud di Israele, non può passare inosservata. E va contestualizzata.

Ci ha provato, ma solo in parte, il giornalista israeliano Amos Harel sulle colonne di Haaretz il giorno dopo a quello che da più parti è ormai classificato come “attacco terroristico” di Be’er Sheva e nel quale sono morte in tutto cinque persone: quattro persone uccise da Abu al-Qay’an e lui stesso, abbattuto da due altre persone sul posto.

Sin dal titolo del suo articolo, Harel stimola il lettore a porsi una domanda essenziale: da dove proveniva l’autore dell’attacco. E si apprende che il 34enne Abu al-Qay’an era originario di Hura, una località del Neghev (النقب) tra Be’er Sheva (in arabo بئر السبع, i Sette pozzi) e la Cisgiordania.

Indigenous (In)Justice: Human Rights Law and Bedouin Arabs in the Naqab/Negev

Ahmad Amara, Ismael Abu-Saad, Oren Yiftachel
Harvard University Press, 2012

L’analisi però si ferma qui. E non va oltre questo accenno alla comunità beduina del Neghev. Si cita brevemente il tema del radicalismo, menzionando l’Isis, ma non si danno al lettore altri spunti di riflessione.

Una delle domande centrali della questione rimane ancora senza risposta: da dove viene questa rabbia? Di quale sofferenza è figlia questa violenza?

Appare solo come la punta dell’iceberg la foga con cui Abu al-Qay’an si è scagliato con la sua auto contro due delle sue vittime e con cui ha pugnalato le altre due.

Su fonti aperte in arabo si apprende che l’assalitore, di cittadinanza israeliana, dal 2015 era stato per cinque (o quattro) anni in un carcere israeliano perché accusato di fare proselitismo in favore dell’Organizzazione dello Stato islamico.

Abu al-Qay’an entra in carcere a 28 anni e ne esce a 32. Da due anni era disoccupato. E su di lui l’intelligence interna israeliana – si legge su fonti israeliane – manteneva la sorveglianza.

Le fonti concordano nel dire che prima di finire dietro le sbarre lavorava, già da ventenne, come insegnante alle scuole superiori. E sostengono che il giovane fosse finito in carcere dopo esser stato scoperto che diffondeva volantini di adesione all’Isis presso i suoi studenti della scuola superiore di Hura.

La versione che Abu al-Qay’an fosse dunque un “terrorista” dell’Isis è stata poco dopo confermata anche da media e analisti israeliani.

E anche su questo aspetto la riflessione può fermarsi improvvisamente, senza farci addentrare nella complessità delle cose. Senza farci scendere sotto la superficie della ricostruzione mediatica per conoscere il resto dell’iceberg.

Il giovane assalitore è nato nel 1988, quarant’anni dopo la nascita dello Stato di Israele. E’ originario di una comunità beduina del Neghev.

Come i circa 200mila altri beduini israeliani della regione desertica del sud di Israele, anche Abu al-Qay’an porta con sé la sofferenza individuale e collettiva accumulata nel corso di generazioni.

As Nomadism Ends. The Israeli Bedouins of the Negev

Avinoam Meir
Routledge, 1997

Una sofferenza antica, fatta di privazione dei diritti fondamentali, di esclusione dai benefici della cittadinanza, di annientamento sistematico di un intrecciato insieme di comunità.

Comunità di nomadi, semi-nomadi e sedentari, per secoli e fino a un secolo fa presenti nell’universo liquido dei deserti tra il Sinai e la Penisola araba, a ridosso delle realtà urbane e rurali dell’entroterra di Gaza e della Palestina interiore.

Ancora oggi, queste comunità hanno legami che superano il confine nazionale di Israele e si relazionano a vari livelli con altre sfere regionali.

Un servizio di Vice News del 2014. Simon Ostrovsky parla di pulizia etnica

Della vicenda personale di Abu al-Qay’an si conosce assai poco. E per far luce sul movente della sua azione del 22 marzo scorso è necessaria una ricerca attenta. Non solo nei meandri della sua pur breve vita vissuta ma anche nelle pieghe delle frustrazioni e della rabbia di una intera comunità da decenni ai margini.

Ma quel che è successo a Be’er Sheva non è necessariamente riconducibile a una sofferenza collettiva, a un moto di una intera comunità ai margini, espresso per mano di un singolo. Non conosciamo nulla della vita di Muhammad Ghaleb Abu al-Qa’yan, 34 anni.

Certamente, non sfugge all’osservatore la contrapposizione tra quanto sosteneva nel gennaio scorso, prima degli attacchi di Be’er Sheva, l’attivista palestinese Samer Sinijlawi riguardo alla questione dei diritti delle comunità beduine del Neghev e quanto sosteneva invece Jeremy Saltan, deputato israeliano del partito Yamina del premier Naftali Bennet.

Israeli State Policy Toward Bedouin Sedentarization in the Negev

Ghazi Falah

Journal of Palestine Studies, Vol. 18, No. 2, 1989, pp. 71-91, University of California Press

In quei giorni la notizia riguardava le proteste di comunità beduine del Neghev contro il progetto governativo israeliano di sostituire con zone alberate una serie di aree dove sorgono località beduine mai riconosciute dalle autorità israeliane.

Saltan e Sinijlawi erano stati invitati nello studio della tv all news israeliana i24 a commentare gli scontri tra polizia e manifestanti dell’area del Neghev.

Saltan insisteva col dire che il deserto può essere trasformato in un giardino fiorito come è stato fatto in passato in altre regioni israeliane, e che la questione non è politica, ma che è stata politicizzata. Che si tratta solo di far piantare degli alberi.

Sinijlawi dal canto suo affermava che il problema è invece eminentemente politico e che la questione delle proteste nel Neghev va considerate nella complessità del conflitto palestinese-israeliano, del tema dell’inclusione di alcune comunità e dell’esclusione di altre comunità da diritti di cittadini.

Sinijlawi faceva notare che gli alberi, piantati da coloni israeliani ed esponenti delle destre israeliane lì dove sorgevano o sorgono ancora oggi abitazioni di beduini, servono a formalizzare l’opera di espulsione di fatto di queste comunità da quel territorio.

Una vera e propria pulizia etnica, faceva notare nel 2014 il giornalista israeliano Simon Ostrovsky.

Al di là della storia individuale di Abu al-Qa’yan, la storia del rapporto tra Stato di Israele e comunità beduine del Neghev è evidentemente ricca di fatti e si intreccia con la storia dei rapporti tra i poteri centrali che si sono succeduti nella regione e i poteri locali, sedentari e nomadi, che abitano da secoli queste terre.

Per tentare di comprendere meglio cosa si muova sopra e sotto la brace negli individui e nelle collettività di questo angolo di Mediterraneo, sofferente e così ricco di potenzialità di sviluppo e stabilità, è bene cominciare a porsi alcune domande.

domande iniziali per la ricerca
  • Di cosa parliamo quando parliamo di “beduini del Neghev”? E’ una comunità variegata al suo interno con una storia articolata, naturalmente collegata alla storia di altre comunità nella regione. Chi sono oggi i beduini del Neghev? Qual’è il loro status civile e politico? Quale la loro situazione socio-economica?
  • Quali dinamiche hanno caratterizzato nel corso del tempo i rapporti tra beduini del Neghev e i poteri centrali, non ultimo quello dello Stato di Israele?
  • Che rapporti intercorrono tra gli abitanti del Neghev, siano essi sedentari di religione ebraica e sedentari di origine nomade arabo-musulmani?
  • Che relazioni ci sono tra le comunità beduine del Neghev e gli altri palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e nelle altre regioni della Palestina pre-1948?
  • In diverse interviste, discorsi e resoconti, la questione dei diritti dei beduini del Neghev appare come una questione interna allo Stato di Israele, tra cittadini considerati di serie B da autorità centrali che discriminano in base all’appartenenza comunitaria. Ma è soltanto una questione interna a Israele o riguarda il più ampio rapporto tra Israele e le popolazioni palestinesi in tutta la loro varietà?
  • Qual’è la posizione dei partiti palestinesi rappresentati nella Knesset, il parlamento israeliano?
  • Quali sono le caratteristiche del dibattito pubblico e istituzionale israeliano rispetto allo statuto delle comunità beduine del Neghev?
  • E qual’è il dibattito pubblico, politico e istituzionale palestinese relativo a queste comunità?
  • I beduini del Neghev sono collegati politicamente, economicamente, a livello di parentela, con altre comunità extra-palestinesi ed esterne al contesto israeliano, presenti nelle regioni limitrofe del Sinai, della Giordania, dell’Arabia Saudita, oppure distanti fisicamente ma comunque in relazione con la gente del Neghev?
  • Qual’è la biografia di Abu al-Qay’an? Quale la storia della sua famiglia? Cosa è successo nella sua vita?
  • E’ possibile confermare o smentire la sua presunta vicinanza all’Isis? Cosa significa aderire all’Isis in una realtà come quella del Neghev israeliano oggi?
  • Quali sono le condizioni socio-economiche di questa regione alla luce delle crisi finanziarie regionali, delle ripercussioni della pandemia?
  • Perché i due fratelli di Abu al-Qay’an sono stati arrestati dalla polizia subito dopo l’attacco del 22 marzo? L’accusa è di “non aver evitato” che Abu al-Qay’an compisse l’attentato. I due fratelli non possono essere visitati in carcere dagli avvocati, per quale motivo si assumono queste misure che appaiono punitive nei confronti della famiglia dell’attentatore?
“Per quanto voi abbiate fatto terra bruciata, noi rimaniamo” (10 marzo 2004. Pesticidi spruzzati su terreni agricoli vicino a Hura, nel Neghev (https://www.naqab.org/resources).
PERCHE’ Sono IMPORTANTI QUESTE DOMANDE
  • Per contribuire a fornire alle autorità locali e centrali possibili soluzioni perché l’attacco del 22 marzo non si ripeta.
  • Per ricostruire la complessità della situazione attuale e capire meglio le ragioni profonde della sofferenza e della rabbia.
  • Per dare profondità al contesto personale e familiare di Abu al-Qay’an, inserendolo nel contesto più ampio.
  • Per provare a suggerire modalità di trasformazione virtuosa del contesto e dei rapporti tra le comunità del Neghev. Modalità che vadano oltre l’approccio repressivo, poliziesco, di sicurezza, della “lotta al terrorismo”.
  • Per tentare di suggerire modelli di sviluppo inclusivo a livello locale che possano generare stabilità, sicurezza e soprattutto benessere. E che possano rappresentare un esempio per altre aree connotate da tensioni, conflitti, rabbia e sofferenza.

N.B. Questo post è stato scritto prima di altri due attacchi analoghi verificatisi in altre località israeliane nei giorni successivi al 22 marzo. La cronaca cambia, la necessità di porsi domande per contestualizzare gli eventi rimane.

Why this story?

About me

Sono Lorenzo Trombetta. Per 25 anni ho vissuto e lavorato dall’altra parte del Mediterraneo. Leggi di più…